recensione al libro "Il Castello San Michele" di Laura Caputo a cura di Nicoletta Stecconi

27.10.2013 11:37

Scrivere la biografia di un noto boss della Camorra - già condannato a diversi ergastoli - non è certo cosa facile. Siamo negli anni della scissione tra la Camorra di vecchio stampo e la Nuova Camorra Organizzata. Il compito viene assegnato a una giornalista del nord, naturalizzata francese, che a tale scopo decide di soggiornare nel suo paese (Settimiano, provincia di Napoli) per conoscere luoghi e persone ad esso legati.  Il ‘Castello di San Michele’ è la storia raccontata in prima persona dalla giornalista che, non accontentandosi delle informazioni ufficiali sul boss, decide di entrare nel suo ambiente, per conoscere personalmente il suo percorso esistenziale, le origini, i legami famigliari, la mentalità del luogo, i nemici.

Le prime tre pagine vedono la donna perdersi, suo malgrado, in un territorio che sembra abbandonato a se stesso, senza alcuna regola urbanistica né comportamentale e sociale. Metaforicamente, già in quelle prime pagine, ci si tuffa in un mondo a sé,  che visto dal di fuori può risultare incomprensibile, ma che invece vivendolo spiega tutto il senso della criminalità organizzata tipica del nostro meridione: completa assenza dello stato, collusione tra criminalità e istituzioni, prevaricazione, arretratezza sociale e solitudine umana.

Ora, se fosse solo questo sarebbe forse l’ennesimo reportage storico-giornalistico su un fenomeno sociale del quale si conosce già abbastanza e che spesso ci si trova a ignorare per pura difesa mentale. L’autrice, invece, riesce a narrare la storia in modo estremamente sanguigno e umano, riuscendo nella costruzione di un romanzo realista dagli insospettabili spunti filosofici e psicologici. Spogliandosi da ogni pregiudizio etico, la protagonista si troverà a vivere, comprendendole a pieno,  le condizioni delle donne della Camorra e di tutti quei personaggi che per nascita e status sociale formano il tessuto umano sul quale la stessa insinua le sue storiche radici da secoli.

I riferimenti alla realtà sono diversi, alcuni ben dissimulati, altri più palesi, ma la cosa che più colpisce è lo stato psicologico in cui si trova la giornalista, una donna dalla morale elevata e dall’ingenuità che spesso fa sorridere per solidale condivisione, una donna che fa della fiducia incondizionata nel genere umano una delle prerogative fondamentali per il riscatto salvifico dell’intera umanità.

Esonerandosi da qualsiasi valutazione etica (un po’ come Pasolini con i suoi personaggi preferiti) si ritrova così a sperimentare una comprensione che non sarà un caso rappresentare forse l’unica reale possibilità di raggiungere la sostanza più umana del boss, scuotendolo nel profondo, per la prima volta, verso una possibile redenzione. La realtà, però, è un’altra cosa.

Il romanzo segue uno stile originale, sebbene racconti di un episodio del passato il lettore si trova a vivere in prima persona le vicissitudini dei protagonisti in un presente assoluto, grazie all’uso stravagante dei dialoghi, dove spesso sono gli interlocutori della giornalista a farsi domande e a darsi risposte, proprio a voler confermare quella  mentalità che non permette alcuna interferenza, e giustificare la radicata non volontà di cambiamento.  L’ironia e la schiettezza del linguaggio, infine, rendono il romanzo accattivante catturando il lettore attraverso quel ritmo indispensabile a far battere i cuori dell’autore e del lettore all’unisono, attraverso la condivisione delle medesime emozioni.

Nicoletta Stecconi